Lettera del Prof. Gian Luigi de’Angelis alla “Gazzetta di Parma” del 27 Marzo 2020.
Caro Direttore,
l’epidemia di Coronavirus oltre ai drammatici problemi sanitari ha sollevato nel nostro Paese, tra i più colpiti da questa tragedia, molteplici interrogativi di natura sociale, economica, politica, culturale. Non è possibile affrontarli e discuterli tutti, anche se ognuno di questi potrebbe aprire dibattiti estremamente costruttivi per la nostra vita quotidiana. Cercherò quindi di limitare le mie osservazioni alla problematica che dovrei conoscere meglio, quella dell’assistenza sanitaria, dato che lavoro da più di 40 anni nell’Università e negli Ospedali pubblici del nostro Sistema Sanitario Nazionale.
La prima osservazione da fare è che ci siamo trovati impreparati a fron- teggiare l’onda d’urto dell’emergenza Covid-19, in un periodo storico in cui tutti noi ci eravamo “dimenticati” di questi problemi, travolti dal benessere tecnologico crescente e dai ritmi produttivi frenetici. L’uomo, come insegna la sua evoluzione, è sempre stato in difficoltà di fronte ai cambiamenti e alle catastrofi naturali, ma la nostra attuale impreparazione a fronteggiare l’epidemia di Sars-Covid 2 ha cause ben precise. Dal punto di vista economico, gli ultimi decenni sono stati apparentemente improntati al “risparmio” della spesa per la sanità pubblica. Questa scelta, giustificata come lotta agli sprechi, non ha ridotto questi ultimi che anzi sono andati aumentando dilatando la spesa pubblica, ma con tagli importanti ai servizi sanitari e mancati investimenti. Tutto questo ha inciso negativamente su un Sistema Sanitario pubblico che avrebbe le potenzialità per essere un esempio positivo di stato sociale e di diritto alla salute di ogni cittadino. Queste logiche deleterie hanno portato a una riduzione progressiva dei posti letto/abitante e a un numero insufficiente di posti di rianimazione. E nessuno dei governi che si sono
succeduti ha contrastato con decisione questa tendenza. “Risparmiare” come è stato fatto in Italia sulla sanità, parallelamente a quanto fatto per l’istruzione e la ricerca, vuol dire entrare in un circolo vizioso che a tutto può portare, come vedremo più in dettaglio, salvo che a un effettivo vantaggio economico per la nazione.
Occorre poi aggiungere che il comparto sanità, bene comune indispensabile che pretenderebbe conoscenze elevate e specifiche, ha visto e vede ai vertici politici dedicati e negli Ospedali persone quasi sempre lontanissime dalla medicina e quindi con una preparazione totalmente assente o non significativa, secondo un criterio di scelta – per nomine o favorendo nei concorsi questo o quel professionista – che risponde solo a sciagurate logiche clientelari. L’altro rilevante problema che questa emergenza sta evidenziando è quello della mancanza di medici e infermieri nelle strutture che stanno cercando di contrastare le morti da Covid-19. Il problema non è comunque puramente numerico, come alcuni cercano di rappresentare al cittadino comune, ma è più che altro qualitativo e organizzativo, anche qui, con responsabilità politiche ben precise.
Appartengo a una generazione che ha fatto il medico per inclinazione naturale allo studio della medicina, per la passione e l’orgoglio di fare un mestiere nato con la civiltà umana e con la coscienza dell’impegno, delle responsabilità, dei rischi e del dolore che comporta vivere in una realtà di sofferenze fisiche ed emotive. Ma proprio con la mia generazione, quella dei medici usciti dai licei nel post-sessantotto, questa figura professionale iniziò ad essere appannata da due convinzioni opposte, ma entrambe socialmente pericolose. Da una parte cominciò ad affermarsi una rappresentazione dei medici come uomini di potere e persone senza scrupoli che per avidità erano disposte a speculare sulla salute della gente; dall’altra paradossalmente cominciò un aumento indiscriminato delle iscrizioni a medicina considerata una facoltà che garantiva un lavoro ottimamente remunerato. I danni furono ingenti: una pletora di laureati in medicina sotto-occupati, insoddisfatti e con stipendi via via decrescenti e non paragonabili a quelli dei colleghi di altre nazioni o di altre categorie di professionisti e allo stesso tempo il progressivo decadimento della figura professionale del medico, con tutta una serie di ripercussioni sociali i cui risultati si vedono anche oggi. Aggressioni a medici o personale infermieristico; scene di violenza nei pronto soccorso da sempre insufficienti e non solo adesso con l’epidemia da coronavirus; nessun rispetto soprattutto nei confronti delle donne medico vitti- me spesso di aggressione verbale o fisica: tutto questo è riportato dalla cronaca di ogni giorno.
Adesso, con l’epidemia e con la tristissima scia di persone decedute che a essa è legata, torna a emergere la figura più positiva e più vera del medico: il professionista che non ha orari, non ha sabati e domeniche spensierate, che paga a volte il suo sforzo ammalandosi e morendo come gli stessi pazienti che cura, com’è sempre successo e succede anche in questi giorni con un gran numero di medici deceduti (a tutt’oggi più di 30) e almeno il 30-40% dei medici e degli infermieri impiegati nella lotta infettati dal Coronavirus.
In questo drammatico momento ci si rende conto che il medico è una fi- gura indispensabile per ogni cittadino del mondo. E non è certo la risposta giusta, come è stato deciso, mandare “al fronte” ragazzi appena usciti da un’Università che, pur fornendo un buon grado di preparazione teorica, non prepara dal punto
di vista applicativo-clinico i neolaureati. Si fa allora come nella Prima Guerra mondiale dove vennero mandati a combattere soldati-ragazzi di 18 anni. Il medico deve esser prima di tutto un professionista di sicura preparazione per poter veramente aiutare i pazienti. La generosità, l’impegno e la buona volontà pur essendo fondamentali non bastano. Qualcuno dice che bisogna laureare più medici, ma non si parla della fuga dei nostri medici giovani all’estero, 1500 in media all’anno negli ultimi 10 anni, richiamati dalla mancanza di impiego in Italia e dalle carriere più veloci ed efficaci all’estero, perché improntate alla meritocrazia e non ai concorsi determinati dal potere clientelare. Il 52% dei medici che lavorano in Europa al di fuori della propria nazione sono italiani. Francia, Inghilterra, Stati Uniti sono pieni di validi professionisti italiani che spesso, pur nelle difficoltà di vivere lontano dal proprio paese, hanno brillanti carriere facendosi stimare quali professionisti di altissimo livello. Con questa costante e imponente fuga all’estero l’Italia per ogni medico che laurea, oltre all’incalcolabile danno umano, perde un investimento economico valutabile in circa 250.000/300.000 euro. Tutti i neolaureati italiani dovrebbero avere la possibilità di accedere ai corsi di specializzazione. Ma le specializzazioni costano per cui nel 2019, in virtù del tanto decantato risparmio, a fronte di circa 16-17.000 laureati le borse di studio non hanno superato le 8900/anno, lasciando in un limbo di mediocrità tanti giovani che magari non superano la lotteria del quizzone nazionale ma hanno tutte le capacità potenziali di essere un giorno ottimi professionisti. La politica spesso dimentica che la cosa più importante è avere medici di qualità, mentre cerca di ridurre il concetto di buona sanità al solo versante organizzativo saldamente nelle sue mani.
La dedizione di tanti medici e infermieri, che in questa drammatica emergenza sanitaria si prendono cura dei malati con turni massacranti di lavoro e rischi personali enormi, è davanti agli occhi di tutti. Il nostro impegno oggi è salvare più vite possibile per limitare l’umana sofferenza e lo strazio di chi perde le persone amate. Ma è doveroso pensare anche al domani e trarre degli insegnamenti da questa tragica esperienza che mai avremmo voluto fare né potuto immaginare.
Riformiamo il numero chiuso a Medicina arrivando al numero programmato, cioè alla apertura di iscrizioni che si basi su previsioni annuali matematiche del giusto fabbisogno nazionale di medici. Diamo la possibilità a ogni neolaureato di iscriversi a una specialità, dato che la medicina moderna non può più farne a meno. E da ultimo offriamo ai giovani la possibilità di carriere basate sul merito e sull’impegno e non sulla raccomandazione con risultati dei concorsi non più tollerabili. Solo in questa maniera potremo evitare la fuga dei cervelli che ci ha resi famosi nel mondo e che stiamo pagando tutti duramente.
Occorre in tempi rapidi invertire la rotta se vogliamo una sanità al servizio dei cittadini, nel rispetto del dettato costituzionale. Non abbiamo più tempo, perché il Coronavirus ha fatto precipitare i problemi della nostra sanità che ritroveremo ancor più grandi alla fine, speriamo vicina, di questa epidemia. Passata la tempesta avremo subito dopo il peso di tutti i nostri pazienti affetti da patologie anche gravi che in questo periodo corrono il fondato rischio di non essere curati nei modi e nei tempi ottimali, perché la situazione infettivologica è diventata preponderante. E anche in questo caso non sempre con decisioni improntate alla logica e alla evidenza scientifica. Questa è l’altra enorme preoccupazione che noi, medici sul campo, sentiamo di avere per non aggiungere altre sofferenze alla popolazione italiana già tanto pesantemente toccata da questa epidemia così inaspettata e così tragica.